Quest’anno, martedì 15 settembre, toccherà a Rompesuelas, un esemplare di 6 anni e 640 kg al quale sono state limate le corna per renderlo meno pericoloso.
Il Toro de la Vega che si tiene a Tordesillas per la vocazione mariana della Virgen de la Pena, è uno degli spettacoli più truci e insulsi ancora in auge nel vecchio continente.
Eh già, la tauromachia. Non esattamente in questo caso, dato che non esiste in verità battaglia alcuna: il toro viene ucciso con lance di ferro, pietre e coltelli da una torma di centinaia di persone inferocite – niente di più che un tiro al bersaglio mobile.
Prendete un toro, uno tosto. Quest’anno, martedì 15 settembre, toccherà a Rompesuelas, un esemplare di 6 anni e 640 kg al quale sono state limate le corna per renderlo meno pericoloso.
Ora facciamo un gioco.
Il gioco ha una sola regola: trafiggere il toro più e più volte fino a quando esangue non stramazzerà al suolo. Decine di picador e lancieri colpiscono l’inerme bestia fino alla morte, fra le urla, le risate e il ghigno compiaciuto di turisti e indigeni. Il fine di tutto questo? Nessuno, divertire il popolo.
Mentre la Spagna si mobilita con l’iniziativa Rompe una Lanza del partito animalista PACMA, politici e autorità locali permettono e sostengono l’evento, presumendo che un animale agonizzante trafitto da decine di lance sia una tradizione d‘interesse culturale.
No, non c’entra niente la nostra considerazione per gli animali, i diritti o le condizioni di benessere che siamo disposti a conceder loro: qui c’è solo da preoccuparsi per le sorti di un’umanità abietta.
È dubbia infatti la questione se gli animali abbiano diritti – elicitati a partire dalla premessa che altre specie esistenti provino ugualmente dolore, oppure inscindibilmente legati al concetto di vita. Probabilmente tutta la faccenda non ha neppure molto senso.
Che cosa può mai importare per la vita di milioni di animali in tutto il mondo se il rispetto è concesso o dovuto, se a trionfare è l’empatia umana, la soggettività delle bestie o forse solo una certa estetica ecologica più interessata al quadro che ai personaggi?
Il rispetto per la vita, non avendone gli umani per se stessi, come si può sperare che in forza di un principio non scritto lo si offra in dono a ciò che è diverso da noi, prefigurando uno scenario in cui non ci siano discriminazioni di razza o specie, soprusi, tirannia e sfruttamento?
Neppure la vita è in verità un valore assoluto, non essendo essa né frutto di una scelta né sovente una conquista meritata. Si può giustificare un omicidio? Privare della vita qualcuno? Be’, pare proprio di sì e capita tutti i giorni: in alcune circostanze siamo portati a ritenere che sia moralmente ragionevole uccidere o lasciar morire – legittima difesa, aborto, eutanasia etc.
I principii sono come l’anima bella di hegeliana memoria: s’ammaccano un po’ quando si calano nel terreno lutulento dell’esistenza concreta, non amano sporcarsi. Del resto, come pretendere che l’adeguamento formale a una regola ci renda eo ipso individui responsabili e giusti?
C’è una cosa sulla quale chiunque sarebbe disposto a convenire, almeno a parole. Non si tratta della liceità di una guerra o dello sfruttamento selvaggio delle risorse naturali disponibili, e neanche dell’avvelenamento di acqua e aria o della perdita di biodiversità. Non ci riferiamo nemmeno al diritto di uomini e animali a vivere e morire. In tutti questi casi la discussione resta aperta, talvolta persino sospesa.
Un aspetto sembra irrefutabile in ogni discorso sul bene e il male, perché senza gli individui rinuncerebbero alla propria dignità, dignità dalla quale discende il rispetto che rende gli esseri umani non solo mezzi ma anche e soprattutto fini in sé. Stiamo parlando del ripudio della tortura – un concetto sfuggente e impronunciabile, del quale si conosce il divieto ma non il crimine.
La tortura rende ignobile non il solo torturatore ma l’intera società civile che silente osserva. Per questo, al pari dell’incesto e del cannibalismo la consideriamo tabù ed è per questo che l’abbiamo bandita dalle nostre società civili – come chiaramente si legge nella Dichiarazione universale dei diritti umani all’Articolo 5: (3) — “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti.”
Guai però a parlarne (si fa ma non si dice), se interrogati gli aguzzini diranno sempre che non si tratta di tortura – perché granello dopo granello, come nel paradosso del sorite, è difficile capire quando la sabbia diventa mucchio, la semplice punizione tormento e supplizio.
Ora si potrebbe pensare che torturare gli animali non è la stessa cosa che torturare le persone.
Eppure la tortura ha solo a che fare con gli uomini.
Se la vittima è un animale, infatti, la tortura non ha alcuna funzione; non certo quella di estorcere una confessione, una colpa o un delitto commessi: è pura espressione di crudeltà – gratuita, sadica, senza scopo se non il piacere di infliggere sofferenze. Un comportamento di questo tipo non può essere ‘bestiale‘, perché si tratta di un‘attitudine esclusivamente umana: gli animali possono essere violenti, ma mai crudeli.
Cercare di giustificarla aggrappandosi a una qualche forma di vetusta e sanguinaria tradizione spacciata per cultura, è un’infame e guitta rinuncia alla propria dignità di individui.
Difenderla o far finta che non esista rende chi osserva ma tace un mostro ancor più pericoloso.
di Antonello Palla
Italy Communications Manager Animals Asia Foundation Italia
the Spanish are primitive, bloodthirsty savage
TELL ME THE REASON WHY.