Questioni di cinismo
In questi giorni l’opinione pubblica mondiale sembra scossa da un evento all’apparenza di una barbarie inconcepibile, il Festival della carne di cane di Yulin – in programma ufficiosamente il prossimo 22 giugno. Eh sì, all’apparenza. Dico questo non già perché nei fatti non lo sia, ma perché per dirla tutta la cosa non è meno abominevole di quel che le nostre sopraffini e zelanti coscienze, avvezze a spettacoli e lazzi non altrimenti tragici e crudeli, obliterano quotidianamente.
Che si tratti di porci, mucche o cani, la questione è meramente ideologica. La cultura occidentale dovrebbe aver preso atto da un pezzo della contingenza delle proprie categorie assiologiche, dei propri valori. Eppure c’è ancora una masnada di ferventi redentori che si appella stentoreamente alla cultura, quella nostra ovviamente; o al dialogo (eh sì, i nostri amati Socrate e Platone) per risolvere le controversie morali.
Va da sé che scrivere una lettera all’Ambasciata Cinese nel nostro paese o cimentarsi in ardimentosi flash mob di protesta come pure molti hanno suggerito, grandi associazioni in testa, è un’idea smagata prima ancora che inane. Voi ce lo vedreste il signor Shaykh Yusuf Al-Qaradawi che fa la stessa cosa per scongiurare la sagra della porchetta di Ariccia? Ecco, appunto.
Che ne pensate degli 800.000 agnellini macellati per Pasqua dalle nostre parti ogni anno? Non è forse ugualmente esecrabile e abietto? E pensate che in questo caso la ritualità ricorsiva ha un mero significato allegorico: in definitiva si fa una strage per pura retorica, basta che a Dio- secondo la nostra canonica eucologia – piaccia. E la cosa, per restare in tema, è ancora più disgustosa dei nostri bassi appetiti.
Di cosa poi sarebbe privo il maiale, deficienza che lo renderebbe cibo e non compagno in questa nostra singolare dicotomia specista? Il tenero suino è persino più intelligente e sensibile dei nostri amati cani!
Da domani potremmo armarci di carta e penna e scrivere a chi di dovere nel nostro paese; così, giusto perché ci sembrano un orrore il prosciutto di Parma e il cotechino. Lo so, in molti l’hanno già fatto.
Pazienza, dite? Tentar non nuoce?
Il punto, però, è proprio questo.
Se a qualcuno che ci chiede un’informazione non sappiamo dare una risposta adeguata, è meglio tacere. Un suggerimento dato a caso, senza la necessaria contezza della materia trattata può rivelarsi inutile o peggio ancora esiziale. Che cosa fare in questi casi, dunque?
Chiedete alle organizzazioni che operano sul campo, loro sanno come muoversi: collaborano con le autorità politiche e i gruppi locali, investono il proprio tempo in educazione e sensibilizzazione pubblica, fanno attività di lobby, cambiano la società dall’interno. Uomini, bestie o ambiente non fa alcuna differenza.
Le petizioni, bella cosa eh? Ma quante se ne vedono in giro? Esistono pure innumerevoli siti specializzati nella loro promozione e creazione, su tutto quello che volete e in più versioni: dalla difesa della tartaruga caretta caretta a quella per bloccare la deriva dei continenti (in effetti alle volte si tratta piuttosto di rogazioni).
Be’, non è che questo strumento non serva proprio a niente; anzi, quando ideata con lungimiranza e discernimento, la petizione è un modo eccezionale per creare consapevolezza – primo e fondamentale passo sulla strada del cambiamento. Talvolta, però, vengono utilizzate da chi le propina per immagazzinare e vendere surrettiziamente i dati degli utenti alle aziende più disparate, e disperate, per fare quella che in gergo tecnico si chiama Acquisition Mailing.
Un’organizzazione seria non crea una propria petizione su un problema che non può affrontare; semplicemente vi indirizza verso chi già sta facendo qualcosa al riguardo. Onestà, trasparenza e integrità sono aspetti che un ente non profit dovrebbe tenere come la rosa al naso.
Pertanto, quando si firma una petizione, di qualsiasi genere sia, assicuratevi che venga promossa o direttamente appoggiata da un’organizzazione che lavora in loco. Se la vostra missione è quella di salvare la gallina padovana, anche se vi stanno a cuore tutti gli animali, non inventatevi raccolte firme per tutelare i pipistrelli: probabilmente c’è già qualcuno che lo fa da tempo –in prima linea sul campo, giorno dopo giorno – meglio di quanto potreste fare voi da casa, per corrispondenza o da un luogo lontano.
Nessuno può fare tutto. E quelli che ci provano scusandosi col dire che starsene a braccia conserte è vile, ingenerano confusione e talora producono rovinosi danni perché s’interpongono nei delicati equilibri politici e sociali in corso, specialmente quando si tratta di problemi nati in altri continenti – dove storia, cultura, diritti e condizioni economiche sono radicalmente diversi da quelli del nostro paese.
Pensate che in Cina fino a qualche anno fa non esisteva nemmeno la parola per definire l’animale da compagnia!
Come potrebbe, dunque, chi non è parte del complicato e lungo processo di trasformazione della società – chi non la vive dall’interno interpretandone le idealità di rinnovamento nel gigantesco sforzo di adeguare la tradizione alle esigenze di un presente che prepotentemente s’impone – realizzare davvero il cambiamento auspicato? La tradizione, infatti, non è mai uno stato ma piuttosto un’attività. È principalmente tràdere, ossia consegnare, affidare, e suggerisce un passaggio nel tempo; essa implica inoltre la traduzione, ovvero la capacità di traducere, condurre al di là e oltre il messaggio ricevuto.
E ora proviamo a definire il problema, seriamente.
Come forse saprete, Jill Robinson ha cominciato a operare in Cina nel 1993, mentre Animals Asia si è costituita nel 1998. Quando questa straordinaria donna inglese mise piede per la prima volta in Oriente, non esisteva ancora nessuna organizzazione protezionistica. Attualmente si contano oltre 100 gruppi locali sotto l’egida e l’assistenza di Animals Asia. Jill comprese presto che non si poteva imporre dall’esterno una concezione etica e morale estranea al paese: dovevano essere i cinesi a cambiare la Cina.
Ma come fare se quelli che noi chiamiamo animali d’affezione vengono crudelmente macellati, mangiati, scuoiati e sovente sterminati in massa per un semplice caso di rabbia?
Serviva un’autentica rivoluzione copernicana. Convincere le autorità che mangiare cani e gatti era poco “civile” non sarebbe servito a nulla (vi ricordate, no? in Cina non esiste la democrazia). Jill decise di mostrare alla gente che questi animali sono amici preziosi e non cibo o pellicce. Introdusse così per la prima volta nella storia di questo paese la pet-therapy, promuovendo il programma Professori a Quattro Zampe in orfanotrofi, scuole, ospizi e centri sociali: la maggior parte delle persone a quel tempo non aveva nemmeno mai accarezzato un cane! È da qui, da molto lontano, che nascono gli eccezionali traguardi conquistati dai cinesi, arrivati a bloccare camion carichi di cani destinati a finire nei ristoranti con il prezioso silenzio-assenso del Governo (che non intervenendo, altra svolta epocale, aveva mostrato eo ipso di prendere le distanze da questa crudele pratica).
La verità è che gli allevamenti di carne di cane e gatto in Cina sono per lo più un mito – in realtà gli animali prima di essere macellati e serviti nelle tavole vengono avvelenati e rubati nelle case private delle aree rurali. Una recentissima indagine di Animals Asia in 15 città di 8 province nel nord, nel sud e nella zona centrale della Cina, ossia dove la carne di cane è prevalentemente consumata, dimostra che i cani non possono essere allevati con profitto su larga scala: a causa dei costi necessari per nutrirli; per la natura territoriale di questa specie – che li porta a combattere fra loro quando confinati in piccoli gruppi; e per il rischio di gravi malattie come la rabbia.
Un cane adulto pesa in media 20 kg (40 jin) e deve essere nutrito per circa 6-8 mesi. Contenendo al massimo i costi, sarebbe forse possibile nutrire un cane con soli 2 RMB (0.29 Euro). Occorre aggiungere i costi per lo svezzamento dei cuccioli e le spese per i vaccini – alla fine si dovrebbero investire 400 RMB (58 Euro) per ogni esemplare, mentre il prezzo per 1/2 kg di carne di cane ancora in vita è di 6 RMB (0.86 Euro). Da queste considerazioni si evince facilmente che non ci sarebbe modo di fare soldi allevando la carne di cane.
Se il mercato della carne dovesse conformarsi alla normativa cinese vigente, gli utili crollerebbero.
Nessuna delle fattorie visitate da Animals Asia ha mostrato la minima evidenza che esistano strutture di grosse dimensioni, e i numeri generalmente sono al di sotto delle 30 unità.
In ogni fase di questa indagine, gli investigatori hanno riscontrato un traffico caratterizzato da comportamenti criminosi ed estrema crudeltà, con gravi violazioni delle leggi vigenti in materia di sicurezza alimentare. Il furto di tre cani di circa 15 kg può fruttare al ladro anche 1.000 RMB (150 euro), mentre i traffici illegali in occasione del festival di Yulin muovono milioni di euro.
La Cina non è un paese di mangiatori di carne di cane e gatto; al contrario, in molte aree del paese, l’astensione da questa pratica tocca addirittura l’80%. Quasi 2 milioni di cinesi hanno già appoggiato la proposta di legge del deputato del Congresso Nazionale del Popolo Zheng Xiaohe, che ha l’obiettivo di rendere illegale nel paese la macellazione e il consumo di carne di cane e gatto.
Per leggere il rapporto integrale sul commercio di carne di cane e gatto stilato da Animals Asia:
Report 1: Bugie, illegalità e vite rubate: una storia criminale
Report 2: Il mercato nero della carne di cane e gatto in Cina: Rassegna Stampa dal 2001 al 2015
Report 3: I cani dei villaggi rurali in pericolo
Report 4: L’atteggiamento di chi mangia carne di cane e gatto in Cina
Per maggiori informazioni sul lavoro di Animals Asia, visita il sito web www.animalsasia.org/it o la pagina Facebook AnimalsAsiaItalia
Antonello Palla
No Comments