Il petrolio è ovunque. Ci cammini sopra, ne senti l’odore nell’aria e lo scorgi dentro le onde che si frangono su Papamoa Beach: macchie nerastre che insozzano la schiuma dei marosi. Lungo la spiaggia si stanno accumulando i sacchetti pieni di catrame che i volontari, assieme agli uomini della protezione civile e dell’autorità marittima, stanno cercando di togliere dalla sabbia. Il loro lavoro comincia quando l’alta marea si ritira, e si interrompe molte ore dopo, quando l’acqua comincia a risalire, ma il flusso oleoso non accenna a diminuire, anzi: «Da ieri è aumentato ancora», mi dice una volontaria, avvolta nella tuta bianca e con il viso sporcato dal catrame.
Non c’è confronto possibile tra le spiagge della Nuova Zelanda e quelle mediterranee. Ma forse bisogna esserci stati per capire l’entità del danno. Bisogna aver camminato su quelle sabbie immacolate, dove è impossibile rinvenire non dico un sacchetto di plastica, ma neppure un mozzicone di sigaretta o una cannuccia di plastica per le bibite, per rendersi conto dello shock che i neozelandesi stanno vivendo in queste ore nel vedere Papamoa Beach ridotta in questo stato. «Sunshine Paradise» è scritto su uno dei cartelli che annunciano che sei arrivato sulla Bay of Plenty. Questa è una delle zone più frequentate dai turisti nell’alta stagione che qui ha inizio a Natale, in corrispondenza con l’estate australe, e Papamoa Beach è un punto di ritrovo per centinaia di surfisti che ne apprezzano le onde lunghe che cominciano a rompersi a centinaia di metri dalla riva.
Gli abitanti della zona vengono in processione a vedere quanto è accaduto. Li trovi sui bordi della spiaggia, tra le dune, che guardano i pezzi di polistirolo zozzo di petrolio che il mare rovescia sulla riva assieme alle altre schifezze vomitate dalla stiva della Rena. Hanno un’espressione incredula e addolorata, ma nessuno di loro grida o strepita: è come se stessero elaborando un lutto e lo fanno in silenzio. Certo, sono arrabbiati per i ritardi, per il troppo tempo che le autorità hanno impiegato a comprendere la gravità del disastro, ma intanto cercano di dare una mano per quanto è possibile. Molti di loro sono andati a ingrossare le fila dei volontari che sono giunti da tutta l’isola del nord. Gareth, che dirige uno di questi gruppi, arriva da Palmerston North, 200 chilometri più a sud. Neanche lui è in grado di dire come andrà a finire: «Siamo in balìa del mare».
Nelle prossime ore il petrolio che fuoriesce dai serbatoi della Rena, incagliata 20 chilometri al largo di Tauranga, arriverà un po’ ovunque e potrebbe interessare cento chilometri di costa. Ucciderà uccelli marini, foche, pesci e pinguini. Quanti non è ancora dato di sapere, ma sono già più di 200 i cadaveri di uccelli rinvenuti lungo le rive. Alcuni di essi appartengono a specie che vivono soltanto in Nuova Zelanda e ne compongono la bio-diversità. Un’altra cinquantina di uccelli è stata messa in salvo e affidata alle cure dei centri allestiti per far fronte a questa emergenza. Al largo incrociano spesso le balene e il «whale watching» è una delle attività più richieste dai turisti, ma quasi certamente le balene e i capodogli si terranno lontane da questo mare avvelenato.
Il catrame è disseminato un po’ ovunque. Cammini sulla spiaggia e cerchi di evitare di calpestarne i grumi oleosi, ma è una precauzione non sufficiente. La sabbia sospinta dall’alta marea lo ricopre e tu ci finisci sopra senza vederlo: dopo pochi passi le tue scarpe ne sono piene. Poco più in là, a pochi metri dal bagnasciuga, si è arenato un container: dalla Rena, la nave maledetta, ne sono già finiti in mare 88. Il cargo container dalla spiaggia non si vede. Sta al largo, davanti all’isolotto di Motiti, inclinato di 22 gradi, tenuto sotto stretta sorveglianza da elicotteri, aerei e navi di appoggio. La sua sorte appare segnata. Da due giorni sulla sua fiancata è apparsa una crepa che con il passare delle ore si è allungata sempre più e ora interessa lo scafo per l’intera altezza. Per le autorità è solo questione di tempo, probabilmente di ore, prima che la nave si spezzi in due e affondi.
Una settimana fa il Rena, che batte bandiera liberiana, è finito dritto filato contro l’Astrolabe, la barriera corallina che circonda la Bay of Plenty, una delle zone costiere più famose della Nuova Zelanda. Era diretto al porto di Tauranga e viaggiava alla velocità di 18 nodi orari, troppi. Secondo voci non confermate, al momento dell’impatto il capitano della Rena stava festeggiando il suo compleanno insieme all’equipaggio, composto quasi interamente da lavoratori filippini. E’ una circostanza che non è stata finora smentita dalle autorità, ma per saperne di più bisognerà attendere le prossime ore, quando il capitano e il suo secondo, entrambi agli arresti domiciliari, compariranno davanti alla corte distrettuale di Tauranga per rispondere dell’accusa di aver violato le norme di navigazione. Altre accuse saranno probabilmente contestate ai due, circostanza che non è stata finora smentita. Le autorità non hanno voluto rivelarne i nomi per il timore che possano essere oggetto di aggressioni.
Poi, nei giorni successivi, mentre le autorità si interrogavano sul da farsi e sprecavano tempo prezioso, è arrivato il maltempo. Sottoposta agli urti delle onde, la Rena ha cominciato a inclinarsi, e una parte dei containers impilati sopracoperta si è rovesciata. Nei serbatoi della nave cargo c’erano 1700 tonnellate di carburante. Di queste, 350 sono finite in mare attraverso la falla apertasi dopo l’impatto con la barriera. I containers a bordo erano 1386, probabilmente troppi almeno: le immagini della Rena con il suo carico in balìa delle onde fa abbastanza impressione. Quasi tutti i containers finiranno in acqua nelle prossime ore e il loro contenuto, come spesso accade, è in buona parte sconosciuto: bisognerà aspettare che vengano recuperati, quando ciò sarà possibile, ma la maggior parte di essi finirà a fondo o andrà a sfasciarsi contro le scogliere. Alcuni contenevano effetti personali. E’ il caso di Gene Rhodes, che tre settimane fa ha deciso di trasferirsi da Christchurch per sfuggire al rischio di nuovi terremoti. Ha preso tutte le sue cose, i mobili e gli oggetti più cari, e li ha spediti a Brisbane, in Australia, dove andrà ad abitare. Il destino ha voluto che finissero stivati sulla Rena: «In quel container c’è tutta la mia vita», ha dichiarato ieri disperato al NZ Herald.
Il mare è grosso, con onde che raggiungono i quattro metri di altezza e questo ha contribuito a rendere più difficili le operazioni di salvataggio e di recupero. Uno dei containers recuperati era pieno di UN2586, un acido ritenuto pericoloso, che per fortuna non è finito in acqua. Da mesi la Nuova Zelanda aspettava la sua «marea nera», quella degli All Blacks chiamati a riconquistare la coppa del mondo di rugby dopo 24 anni di attesa. Ne è arrivata un’altra e non poteva essere peggiore di questa.
| Peter Freeman
Fonte : http://www.ilmanifesto.it/archivi/fuoripagina/anno/2011/mese/10/articolo/5533/
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