TRAUMI: FUGACE VISITA NELLE RAPPRESENTAZIONI MENTALI.
“Quando uno vede la realtà ed apprende ed interiorizza ciò che tale realtà rappresenta, si chiama Storia.
Quando tale realtà interiorizzata è oggetto di riflessione, si chiama Filosofia.
Quando tali rappresentazioni interiorizzate vengono create dal nulla, si chiama Arte.”
On. Giuliano Amato
Tutto potrebbe cominciare con il ritrovamento di un foglietto “dimenticato” su un mobile, posizionato strategicamente affinché il soggetto lo veda quando passa, raffigurante un sistema di cerchi concentrici modellati a guisa di un bersaglio molto simile a quelli usati nello sport dei dardi o freccette, con vari cerchi colorati o anneriti in modo tale da essere messi in evidenza man mano che ci si avvicina verso il centro, creando in chi lo vede il più impenetrabile mistero, e lì per lì la cosa passò totalmente inosservata: specie se si era in vacanza nella provincia Siciliana d’estate, ospiti di amici conosciuti poco tempo prima in Continente.
La vita scorreva lentamente e pigramente nella caldissima ed assolatissima provincia della Sicilia orientale, e come in tutte le normali vacanze estive, la voglia di scoprire e vedere località nuove, diverse, agli occhi di un turista interno era molta, l’entusiasmo incontrollato, dato anche che gli amici erano in realtà il mondo molto privato di una ragazza conosciuta appunto in Continente e questo mondo era composto da giovani ragazzi e ragazze, i genitori, la casa al mare, i viaggi in macchina lungo la costa, a volte anche di molte ore, girando in lungo e in largo tutta l’isola per visitare posti improvvisamente splendidi, di una natura incontaminata, ubicati in questo caso sulla costa più meridionale dove c’è chi giura si possa anche vedere la costa Libica nei giorni di forte vento e con un cielo particolarmente limpido.
La frenetica voglia di visitare posti mai visti veniva assecondata anche dal fatto che la ragazza è un’attrice teatrale, e come si sa durante l’estate gli attori sono al massimo del loro impegno artistico e la stagione era piuttosto intensa, perciò solo seguire tutte le tappe significava lavoro intenso, molti viaggi, pasti veloci spesso consumati in macchina; anche perchè la sera si rientrava sempre a casa dei genitori, ferree regole conviviali dove la cena era sacra e sempre consumata nella sala da pranzo, con la tavola apparecchiata in gran spolvero, tipica ospitalità meridionale dove attorno all’ospite gira un pò tutta l’attività domestica. Solo un paio di volte si mangiò in cucina, anzi in questi casi si poteva andare al ristorante, quando gli impegni teatrali lo permettevano e i genitori non tornavano a casa per un paio di giorni, e si gustavano le specialità del posto, e si andava a fare il bagno in un mare limpidissimo a seconda di dove ci si trovava cioè, poteva essere anche molto inquinato, in genere com’è ovvio presso le grandi città e lì era sconsigliato farlo: solo una volta, ripensandoci, il mare era bellissimo e l’acqua pulitissima nonostante la vicinanza della città con tutta la sua attività inquinante e questo era in Sardegna molti anni prima, la spiaggia era quella usualmente frequentata dalla popolazione della costa sud, attrazione balneare con tutta l’attrezzatura del caso e non le coste selvagge e poco frequentate dove dovevi sudartele per apprezzarle e raggiungerle, ed in genere parte di ben custoditi segreti locali.
I primi inequivocabili segni di squilibrio mentale iniziarono dopo una decina di giorni, quando lei cominciò a girare per casa parlando da sola, preda di fantasmi interiori, oscure presenze esistenti solamente nella sua mente, colloquio invisibile con chissà quali demoni che la perseguitavano e nulla faceva trapelare ciò che le consumava lentamente l’anima: si poteva immaginare allora quale comportamento bizzarro ed egocentrico queste attrici possono avere, ma distruttivo, se non miracolosamente catartico nella finzione teatrale che rendeva tutto teraupeuticamente sopportabile, tale finzione figlia di una realtà terribile, inespressa, una rabbia così mortificata e compressa che la portava a fissare con lo sguardo il soggetto per molte ore, senza profferire parola. Inutile chiedere:
“Che c’è?”
“Niente”.
Non avresti avuto la benché minima spiegazione.
Oppure la portava a restare sveglia per tutta la notte finché l’angoscia non arrivava a tali livelli di guardia che prendeva improvvisamente l’auto e viaggiava per diverse ore solamente per andare a mangiare specialità locali all’alba in una sperdutissima pasticceria di un paesino che solamente lei conosceva.
Molte, moltissime volte la domanda era sempre la stessa: “Che cosa ti succede?”
“Niente”.
Solo una volta, chissà per quale misteriosa, fortuita congiunzione astrale, si era lasciata andare a confidenze dopo lunghe ore di assoluto silenzio, inframezzato da improvvise risate liberatorie, o emissione di suoni disarticolati e senza senso, una commistione piuttosto preoccupante ed inquietante di emotività sotto pressione, verbalizzate appunto attraverso tali manifestazioni eccentriche proprie di una personalità distrutta da esperienze non comuni ed inconfessabili:
“Hai mai subito delle violenze?”
Lei allora risponde con gesti estremamente studiati come a sottolineare e rendere più incisivo, ficcante, il loro significato; una tecnica teatrale appresa dopo anni di studio o frutto di puro talento naturale, e toccandosi lentamente la tempia enunciando con estrema chiarezza in un Italiano perfetto senza la minima inflessione dialettale, estraniandosi quasi a diventare una seconda lingua a differenza del dialetto locale incomprensibile alle orecchie di un estraneo, pregno di suoni che richiamano il radicato ceppo arabo:
“Ho subito violenza qui’. ”
Forse è stato a causa del di lei comportamento stravagante ed imprevedibile – dando luogo ad una furiosa litigata sottolineata da manifestazioni di affetto eccessivo espresso come ultimo tentativo riparatore, e, visto l’insuccesso, facevano scaturire subito dopo espressioni ed atteggiamenti di odio feroce ed aggressività non richieste – che pose fine alla vacanza siciliana del soggetto.
Ma la sua vita non sarà mai più come quella di prima che si era lasciato alle spalle nel Continente: una delle tante frasi rimaste impresse nella sua mente dopo queste esperienze provanti era quando lei gli disse: ”io devo essere sempre al centro dell’attenzione“: che era poi di una logicità e coerenza ferree vista la sua attività artistica teatrale, ma ciò gli faceva venire in mente chissà per quale curiosa associazione il verbo “attenzionare” del gergo poliziesco letto più volte nelle cronache dei quotidiani.
Svariati anni dopo, la realtà sul Continente cominciò a cambiare profondamente nella mente del soggetto: egli si rese conto che ciò che aveva appreso molti anni prima circa la definizione semantica della capacità umana nel differenziare il “vedere” dal “guardare” prese corpo lentamente molto lentamente nella sua coscienza, e che i suoi schemi mentali venivano manipolati da ciò che gli cominciava a capitare intorno, una nettissima sensazione cioè di essere costantemente osservato, scrutato, seguito e spiato iniziava ad insinuarsi nei meandri della sua anima.
La tattica era ed è tuttora sempre la stessa. Ossessiva. Ripetitiva. Un’infinita coazione a ripetere sempre uguale: da persone che ti scrutano per strada o ti aspettano all’uscita da edifici sia a piedi che in auto; macchine che accendono il motore e partono appena il soggetto è nel campo visivo; rientrando a casa, non appena ci si avvicina al palazzo della propria abitazione spesso nel silenzio notturno, il rumore di una serranda che si alza e si abbassa; persone che, girato l’angolo della strada, parlano di argomenti apparentemente attinenti alla vita del soggetto, sorta di agguati verbali atti a farti sentire svuotato, spersonalizzato, in una costante incertezza se quello che stai sentendo è un qualcosa che ha a che fare con te. Per non parlare di ogni volta che incroci una persona per strada, sia essa giovane, anziana, uomo o donna, questa emette dei suoni incomprensibili sibilando fonemi di oscura natura, atti a generare sentimenti contrastanti, irrazionali ed automatismi psicologici nella mente del destinatario (rabbia/paura, aggressività/sottomissione), assicurandosi di non farsi vedere mentre tali suoni vengono prodotti, in genere mentre il soggetto è di spalle o non appena lo si è incrociato, forzando una ricerca inutile visto che chi emette questi fonemi è già oltre il campo visivo del soggetto, creando un infinito sistema di associazioni mentali non già forti del loro significato profondo ma impoveriti nella loro ”essenza”, rimandando tutto a data da destinarsi, o ”spalmato” in un tempo infinito; E’ in questo contesto rappresentativo di realtà associative piuttosto che significanti, proprie di una società ormai asservita a modelli da “Grande Fratello”, dove tutto è decontestualizzato, traumatizzante, prono verso reti di soggetti giudicanti ed effimeri, che si inserisce la follia delirante del tentativo di controllo, dando luogo invece al suo contrario, alla lenta consapevolezza che un altro mondo è possibile.
Forse quel sistema di cerchi concentrici visto anni prima “dimenticato” su quel mobile aveva un significato preciso, non associativo, e forse aveva come centro il soggetto.
Forse.
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