SECONDO UN FOCUS DELL’ISTITUTO BRUNO LEONI, PUO’ ESSERE SUFFICENTE APPLICARE LE NORME ESISTENTI. LO SOSTIENE LUIGI PETRILLO
Pier Luigi Petrillo è Professore aggregato di Diritto pubblico comparato, Unitelma Sapienza Universita di Roma – Docente di Teoria e Tecniche di Lobbying, Luiss Guido Carli
L’emergere del “caso Bisignani” ha riacceso l’attenzione pubblica sul fenomeno del lobbying. Davvero serve una nuova regolamentazione? Secondo un Focus dell’Istituto Bruno Leoni, può essere sufficiente applicare le norme esistenti. Lo sostiene Pier Luigi Petrillo.
Con l’emergere di quello che ora si chiama “caso Bisignani” ma che ciclicamente è riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica con nomi diversi (basterebbe sfogliare i giornali di un anno fa per trovare un caso simile, peccato che poi tutti dimenticano), viene riproposta da più parti la necessità di regolamentare il rapporto tra lobbisti e decisore pubblico secondo principi di trasparenza e partecipazione.
In realtà, di norme in materia ce ne sono già tante e forse, se ve ne fosse la volontà, basterebbe applicarle e rispettarle.
Vediamone qualcuna, con una prima consapevolezza: il fenomeno lobbistico è connaturato allo sviluppo delle democrazie industriali ed è, anzi, indice di democrazia esso stesso, tanto che solo nei regimi monopolistici e in quelli autoritari le lobbies non hanno ragione di esistere. All’opposto nei contesti democratici, le lobbies rappresentano una infrastruttura indispensabile di funzionamento del sistema istituzionale, perché trasmettono informazioni ad elevato contenuto tecnico al decisore pubblico e ne migliorano l’azione regolatoria.
E con una seconda consapevolezza: poiché le lobbies operano come veri e propri attori della scena politica ed istituzionale, influenzando l’indirizzo politico stesso del governo e del Parlamento (e in tal senso determinando l’andamento della forma di governo di un paese), non è pensabile regolare le lobbies senza regolare anche i decisori pubblici, ed, in effetti, le norme introdotte in Italia vanno in questa direzione.
Passiamole velocemente in rassegna, come fossero le truppe d’assalto di un esercito sgangherato.
Sul primo versante, quello della trasparenza, si possono citare, quanto meno, la legge sul finanziamento delle campagne elettorali, la legge sull’anagrafe del patrimonio dei decisori pubblici, il Codice Penale.
In primo luogo, in relazione al tema del finanziamento dei privati alla politica, la legge n. 195 del 1974 (e successive modifiche), che disciplina il contributo dello Stato al finanziamento dei partiti politici, prevede in capo al partito e al donatore l’obbligo di rendicontare tutti i contributi ricevuti per la campagna elettorale presentando ai Presidenti delle rispettive Camere, entro 45 giorni dall’insediamento, un consuntivo relativo alle spese sostenute e alle relative fonti di finanziamento, trasmesso dai Presidenti delle Camere alla Corte dei Conti per le verifiche di legge
. In secondo luogo, risponde alla stessa finalità la legge 5 luglio 1982 n. 441 che ha introdotto l’obbligo per i titolari di tutte le cariche elettive di depositare, entro 3 mesi dalla loro proclamazione, una dichiarazione concernente i diritti reali su beni immobili e su beni mobili iscritti in pubblici registri; le azioni di società; le quote di partecipazione a società; l’esercizio di funzioni di amministratore o di sindaco di società; copia dell’ultima dichiarazione dei redditi; l’indicazione delle spese sostenute per la campagna elettorale. Entro un mese dalla cessazione del mandato, i parlamentari devono presentare una dichiarazione ulteriore concernente le variazioni della loro situazione patrimoniale, al fine di evidenziare eventuali guadagni non coerenti con lo stipendio percepito.
Qualora un parlamentare non adempia a tale obbligo, il Presidente della Camera di appartenenza diffida l’inadempiente ad adempiere entro i successivi 15 giorni, e, ove l’inadempimento continui, ne dà notizia all’Assemblea, pubblicando il suo nome in una sorta di “lista dei cattivi” allegata al resoconto d’Aula.
In terzo luogo, chi è alla ricerca di un codice etico per i parlamentari, potrebbe cominciare dalla lettura, in combinato disposto, degli articoli 357 e 323 del Codice Penale. Infatti, secondo l’art. 357 C.P., chiunque eserciti una funzione legislativa (e dunque in primis il membro della Camera o del Senato ma anche i consiglieri regionali) è considerato, agli effetti della legge penale, un pubblico ufficiale (ex art. 323 C.P.) e, in quanto tale, ove, nello svolgimento delle proprie funzioni o del servizio, «in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto […] intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto», commettendo il reato di abuso d’ufficio, «è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni», salvo che il fatto non costituisca un più grave reato e che il danno o il vantaggio non abbia carattere di rilevante gravità.
In altre parole, pur nell’assenza di uno specifico codice di condotta o codice deontologico per chi è chiamato ad assolvere il mandato parlamentare, è possibile rintracciare nell’ordinamento disposizioni che definiscono norme comportamentali minimali per deputati e senatori: di conseguenza, ad esempio, il parlamentare dovrebbe astenersi dall’intervenire in Aula o dal presentare un emendamento o un disegno di legge su una materia che potrebbe in qualche modo avvantaggiarlo o anche solo riguardarlo.
Sul secondo versante, quello della partecipazione, sempre più numerose sono le proposte di legge finalizzate alla massima partecipazione dei portatori di interessi particolari, sebbene vi siano già nell’ordinamento (quanto meno) due disposizioni che, ove applicate, soddisfarebbero le migliori aspirazioni.
Si pensi all’articolo 79 del Regolamento della Camera dei Deputati laddove prevede l’apertura dell’istruttoria legislativa anche a portatori di interessi particolari, mediante audizioni o indagini conoscitive ma anche attraverso il deposito di documenti e position paper.
Oppure si pensi a quel complesso di norme che hanno introdotto l’Analisi di impatto della regolamentazione quale relazione che il governo deve accompagnare obbligatoriamente ai propri disegni di legge e di regolamento, e per la cui realizzazione il governo deve procedere a consultare i portatori di interessi particolari illustrando nella suddetta Analisi quali soggetti ha ascoltato, quali posizioni sono emerse e perché, in conclusione, ha optato per la scelta contenuta nella norma presentata.1
Questo complesso normativo rappresenta, sebbene sia disorganico, un primo insieme di norme minimali finalizzate a regolare il rapporto tra lobbies e decisore pubblico. Tuttavia, nella realtà, tali disposizioni sono generalmente disapplicate o, peggio, aggirate e violate.
Così, ad esempio, e per riprendere l’ultimo riferimento, l’Analisi di impatto della regolamentazione (AIR), è sostanzialmente ignorata e basta sfogliare i disegni di legge governativi per capire che, nonostante due leggi, 3 decreti del Presidente del Consiglio e numerosi circolari, l’AIR è, salvo rare eccezioni, lettera morta; ugualmente l’istruttoria parlamentare “aperta”, considerata “rivoluzionaria” quando venne introdotta, è regolata secondo criteri discrezionali e oscuri (le audizioni sono in genere informali ovvero non resocontate e, quindi, segrete).
Non godono di migliore salute le norme relative all’anagrafe dei patrimoni dei parlamentari o a quelle sul finanziamento dei privati alle campagne elettorali.
Emblematica la lettura del “Referto ai Presidenti delle Camere sui consuntivi delle spese e sui relativi finanziamenti riguardanti le formazioni politiche che hanno sostenuto la campagna per le elezioni della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica del 13 e 14 aprile 2008” licenziato dal Collegio di controllo sulle spese elettorali della Corte dei Conti il 4 novembre 2009 (cfr. Corte dei Conti, Collegio di Controllo sulle Spese Elettorali, Delibera n. 9/2009/CSE).
Da questa relazione, emerge chiaramente come tutte le formazioni politiche abbiamo ricevuto contributi da soggetti privati ma non si capisce da chi, né tanto meno per quale entità: così, per limitarci ai principali partiti rappresentati in Parlamento, si apprende che il Popolo delle Libertà ha dichiarato fonti di finanziamento «per euro 53.673.186,58, costituite da libere contribuzioni in denaro, servizi e debiti verso fornitori» (p.70); la Lega Nord per euro complessivi 334.150,00 «di cui sovvenzioni da persone fisiche per euro 12.800,00 e sovvenzioni da persone giuridiche per euro 321.350,00» (p.86); l’Unione di Centro «per euro 20.864.206,44 relative interamente a fondi associativi del Partito» (p.162); il Partito democratico «per euro 19.787.787,06 costituite da contributi da persone fisiche e persone giuridiche, servizi resi dai Democratici di sinistra e dalla Margherita, mezzi propri e debiti verso fornitori» (p.126); l’Italia dei Valori «per euro 3.424.073,64 costituite da a) libere contribuzioni da persone fisiche euro 60.000,00; b) libere contribuzioni da persone giuridiche euro 50.000,00; c) risorse proprie euro 2.314.073,64; d) aperture credito c/c euro 1.000.000,00» (p.52).
Le norme, dunque, che dovrebbero garantire la trasparenza dei finanziamenti alla politica da parte di soggetti privati sono, di fatto, aggirate (se non violate), quanto meno in due modi: da un lato, consegnando bilanci suddivisi in macro-settori e senza l’indicazione dettagliata delle singole fonti di finanziamento; dall’altro, indicando spesso in bilancio che il finanziamento delle campagne è avvenuto “con mezzi propri”, cioè attingendo a fondi del proprio bilancio o impegnando importi della futura erogazione del contributo elettorale, il che impedisce alla Corte di verificare l’effettiva origine del finanziamento poiché tale indicazione «è sufficiente a dare prova liberatoria di esaustiva copertura della quale il referente della formazione politica si assume la responsabilità» (Corte dei Conti, Collegio di Controllo sulle Spese Elettorali, Delibera n. 9/2009/CSE, p. 16). Infatti, secondo l’orientamento della Corte di Cassazione (cfr., da ultimo, Cass. 18 febbraio 1999 n. 1352), il controllo di legittimità e regolarità della Corte dei Conti non può estendersi alle risorse proprie tratte dai bilanci dei singoli partiti, e, di conseguenza, è sufficiente il richiamo a quella formula per nascondere le effettive fonti di finanziamento dei partiti.. Tale complesso di norme, introdotte e aggirate, definiscono ad avviso di chi scrive, un “modello” regolatorio di tipo strisciante ad andamento schizofrenico poiché è tipico di questa nevrosi il dichiarare di volersi comportare in un certo modo e poi fare l’esatto opposto (riprendendo la definizione meglio illustrare nel mio volume Democrazie sotto pressione. Parlamenti e lobbies, Giuffrè 2011, pp. 297 ss.).
Stando così le cose, il rapporto tra gli organi costituzionali e le componenti del sistema politico che ne influenzano l’indirizzo (le lobbies, appunto) è avvolto da un velo impenetrabile di oscurità: il luogo della decisione, lungi dall’avere pareti di vetro, ricorda una brasserie ottocentesca, piena di fumo e cattivo odore, dove, pur entrandovi, si fatica a distinguere le persone, le voci, i movimenti.
È questo elemento che qualifica la forma di governo italiana che, di conseguenza, può definirsi “a interessi oscuri” intendendo, con questa espressione, quelle forme di governo dove sono assenti o carenti o disapplicate le norme comportamentali per i decisori pubblici, dove non possono essere conosciute, nel dettaglio e con facilità di accesso, le fonti di finanziamento della politica, dove il decisore pubblico negozia con le lobbies il contenuto della decisione stessa senza che ciò avvenga secondo quelle regole (di cui si è detto) semplici, certe, trasparenti, uguali per tutti.
All’opposto se queste regole fossero applicate, resterebbe la sola necessità di far emergere i portatori di interessi oscuri, magari prevedendo un registro degli stessi e vincolando l’esercizio del lobbying all’iscrizione.
Senza bisogno di legificare ulteriormente, si potrebbe, a livello di governo, con un DPCM, e, a livello di Parlamento, anche solo con una risoluzione votata a maggioranza (come accaduto in Francia nell’ottobre 2010), istituire un registro dei lobbisti secondo modalità e criteri direttivi omogenei.
Perché le norme che ci sono già siano applicate e, eventualmente, integrate da nuove disposizioni, il presupposto resta lo stesso: la volontà della politica. Quella che ad oggi sembra mancare.
IBL Focus
L’Istituto Bruno Leoni (IBL), intitolato al grande giurista e filosofo torinese, nasce con l’ambizione di stimolare il dibattito pubblico, in Italia, promuovendo in modo puntuale e rigoroso un punto di vista autenticamente liberale. L’IBL intende studiare, promuovere e diffondere gli ideali del mercato, della proprietà privata, e della libertà di scambio. Attraverso la pubblicazione di libri (sia di taglio accademico, sia divulgativi), l’organizzazione di convegni, la diffusione di articoli sulla stampa nazionale e internazionale, l’elaborazione di brevi studi e briefing papers, l’IBL mira ad orientare il processo decisionale, ad informare al meglio la pubblica opinione, a crescere una nuova generazione di intellettuali e studiosi sensibili alle ragioni della libertà.
La nostra filosofia è conosciuta sotto molte etichette: “liberale”, “liberista”, “individualista”, “libertaria”. I nomi non contano. Ciò che importa è che a orientare la nostra azione è la fedeltà a quello che Lord Acton ha definito “il fine politico supremo”: la libertà individuale. In un’epoca nella quale i nemici della libertà sembrano acquistare nuovo vigore, l’IBL vuole promuovere le ragioni della libertà attraverso studi e ricerche puntuali e rigorosi, ma al contempo scevri da ogni tecnicismo.
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