L’Istituto Bruno Leoni ha voluto dedicare la sua cena annuale alla memoria di una grande donna, Margaret Thatcher, che ci ha lasciato in primavera. Le esequie si sono svolte in forma di funerale di Stato. E’ stata la prima volta, dalla morte di Winston Churchill ,che un primo ministro britannico è stato così onorato. Bisogna dire che si è trattato di un onore ben meritato. Posso ben dirlo, per aver collaborato a stretto contatto con la signora Thatcher, prima durante il periodo trascorso all’opposizione, negli anni Settanta, poi, ancora più strettamente, come membro del suo governo, per oltre dieci degli undici anni e mezzo del suo mandato.
Inizierò con un’osservazione di carattere generale: a nessun paese piacciono i cambiamenti radicali. È solo quando tutti ammettono che la situazione di una nazione è diventata inaccettabile e che non si riesce a intravedere alcun miglioramento, che un cambiamento profondo diventa possibile. Così è stato quando Margaret Thatcher ha assunto la carica di primo ministro, un terzo di secolo fa.
È difficile, anche per noi abbastanza anziani da aver vissuto quei tempi, ricordare quanto fosse disperata la situazione della Gran Bretagna in quegli anni. L’inflazione si esprimeva in numeri a due cifre e continuava a crescere e tutto quanto sembrava avere imboccato la via del declino. Ma il problema non era semplicemente economico: un’infernale mistura di strapotere dei sindacati e di uso anarchico di tale potere (nel cosiddetto “inverno dello scontento” del 1978-79, i defunti non venivano seppelliti, l’immondizia non veniva raccolta dalle strade e gli ospedali erano nel caos più totale) aveva convinto molti commentatori che una Gran Bretagna cronicamente afflitta dai più diversi scioperi fosse diventata di fatto ingovernabile. Il paese era considerato con commiserazione all’estero e segnato da un diffuso disfattismo in patria. Eravamo visti, tanto all’interno quanto all’esterno dei nostri confini, come una nazione dal grande passato e senza futuro. Erano anni tetri e scoraggianti. Questa era la situazione lasciata in eredità alla signora Thatcher quando una nazione disperata la elesse primo ministro nel maggio del 1979.
Margaret Thatcher assunse l’incarico promettendo di imboccare una via radicalmente diversa dal passato (anche se, prudentemente, la gran parte dei particolari dei suoi piani rimase abbastanza nel vago: non era il caso di spaventare gli elettori). Una stampa scettica era persuasa che l’unica domanda pertinente fosse se l’inevitabile marcia indietro, come si usava dire, sarebbe avvenuto dopo un anno di governo, o solo dopo sei mesi. Ma in realtà non vi fu nessun dietro-front, e il paese venne salvato. Come riuscì a farlo? Ovviamente le direttrici politiche dovevano essere quelle giuste, ma vi era un ingrediente decisamente più importante: era necessaria anche una leadership risoluta. Ciò significava, tra le altre cose, offrire un chiaro senso della direzione in cui ci stavamo incamminando, dandone un’idea che fosse comprensibile a tutti, a prescindere che fossero o meno d’accordo. Margaret Thatcher nutriva un particolare disprezzo per l’idea di consenso, che ai suoi occhi comportava la confortevole assenza di una rigorosa disamina delle posizioni politiche e di dibattito, il regno dei ragionamenti approssimativi e delle conclusioni abborracciate. Ella, inoltre, credeva in un governo forte, cosa che il sistema elettorale britannico normalmente rende possibile. Ma certamente la signora Thatcher non credeva in un governo onnipotente, anzi: era importante che il governo non disperdesse la propria forza cercando di controllare ogni aspetto della vita della nostra nazione. In particolare, come cercai di sintetizzare nel mio primo discorso da ministro nel 1981, the business of government is not the government of business: “gli affari del governo non sono il governo degli affari”.
Il “thatcherismo”, come venne detto, può essere descritto come una costellazione di valori e convinzioni, una miscela di rule of law, moneta solida, mercati liberi, disciplina finanziaria, saldo controllo della spesa pubblica, basse aliquote fiscali, patriottismo o nazionalismo (la differenza sta tutta nell’occhio di chi guarda) e un tocco di populismo. Ma dietro a tutto questo si trova un chiaro scopo morale e l’ammissione dell’importanza di vincere la battaglia delle idee. I politici che hanno a cuore le idee vengono regolarmente condannati con l’epiteto di “ideologici” da chi di idee non ne ha affatto. Ma Margaret Thatcher capiva perfettamente che è la marea montante delle idee che, più di ogni altra cosa, determina il corso della storia. Può certamente essere vero che, quando assumemmo le nostre cariche nel 1979, la marea fosse sul punto di volgere, ma niente è inevitabile e le onde bisogna comunque essere pronti a cavalcarle. La signora Thatcher prese la marea e la fece volgere. E la sua opera ha resistito al tempo: un’eredità non da poco.
Nel campo delle idee, con il sostegno di una forte consapevolezza dei nostri scopi morali, il filo conduttore erano la libertà e il concetto di rule of law. Ovviamente ciò trascendeva l’ambito delle politiche economiche. In particolare, la difesa della libertà improntava l’ostilità di Margaret Thatcher nei confronti dell’Unione Sovietica e giustifica la formidabile reputazione di cui gode oggi la “Lady di ferro” nei paesi che costituivano il vecchio impero sovietico. Ma il fattore che incombeva maggiormente su di noi quando ella assunse la carica di primo ministro erano le disastrose condizione dell’economia britannica e la strategia che ci avrebbe guidato sarebbe stata la ricostituzione del capitalismo di libero mercato. Sebbene la forza morale dell’economia di mercato si fondi sull’idea di libertà, e in particolare della libertà per ciascuno di noi di dare il meglio di sé e ottenere la ricompensa dei nostri risultati, il suo successo – rispetto ad altri sistemi economici – si fonda in misura non minore sul semplice e ineluttabile fatto della fallibilità umana. Tutti noi commettiamo errori e così sarà sempre. Gli imprenditori commettono errori, non meno di politici e burocrati. Pertanto, qualsiasi tentativo di edificare un sistema economico che elimini gli errori più macroscopici è destinato a fallire. Ragionevolmente, tutto quel che si può fare è realizzare un sistema nel quale gli errori possano essere scoperti al più presto e rapidamente corretti e questo, in pratica, equivale all’economia di mercato. Viceversa, l’esperienza ci mostra che, quale che sia il sistema politico vigente, è lo Stato che trova particolarmente difficile ammettere i propri errori, non parliamo poi di correggerli. Margaret Thatcher comprendeva alla perfezione questo concetto.
Una delle peculiari caratteristiche del governo Thatcher era la misura in cui era disposto ad ampliare i limiti del politicamente possibile. In una democrazia vi è sempre un limite a quel che è politicamente possibile, ma la maggior parte dei leader politici ha un’idea ingiustificatamente prudente di dove si trovi tale confine. Non Margaret Thatcher. Ciò derivava in parte dalle sue salde convinzioni e dal suo disprezzo per il consenso e, quindi, dal fatto che la signora Thatcher era sempre pronta a prendere decisioni estremamente controverse quando era necessario, come frequentemente avveniva.
Ella comprendeva perfettamente che l’essenza della nostra democrazia non consiste nel cercare il consenso popolare per una determinata linea d’azione (anche se indubbiamente agli elettori è dovuta una chiara spiegazione di quel che il governo sta facendo e dei motivi delle sue azioni), bensì nel fatto che, alle elezioni successive, chiederemo alla popolazione di giudicarci sulla base dei risultati delle nostre politiche. Uno degli errori più diffusi della nostra epoca consiste nella tendenza di giudicare ogni indirizzo politico sulla base delle sue intenzioni dichiarate, anziché dei suoi risultati concreti. Quando giudichiamo il modo straordinario – e necessario – in cui Margaret Thatcher e il suo governo hanno ampliato i limiti di quel che era stato ritenuto politicamente possibile fino ad allora, è importante riconoscere che, nella gran parte dei casi, i suoi obiettivi erano condivisi da parte del popolo britannico. Quel che era ritenuto politicamente impossibile erano i mezzi necessari per realizzare tali obiettivi. Ad esempio, era comunemente riconosciuto che l’inflazione fosse un male, sia sotto l’aspetto economico, sia sotto quello sociale. Si riconosceva altresì che tutti i tentativi da parte di governi di entrambi i partiti di contenere l’inflazione per il tramite di politiche salariali non solo avevano fallito, ma avevano prodotto significativi danni politici ed economici di altro genere. Peraltro era evidente ai più che il problema si stesse aggravando, giacché le aspettative di un’inflazione crescente si stavano radicando. D’altre parte era opinione comune che il metodo alternativo, ossia una energica stretta monetaria avrebbe prodotto in ambito internazionale livelli di disoccupazione tali da risultare politicamente impossibile. Eppure è esattamente quel che facemmo.
In realtà la disoccupazione crebbe più di quanto ci aspettassimo e tale fenomeno perdurò più del previsto. Ma ciò non rese politicamente impossibile il nostro indirizzo politico, che venne perseguito fino a che non ebbe successo e che in seguito è stato istituzionalizzato grazie all’indipendenza della Banca d’Inghilterra.
Analogamente, era opinione comune che la nazionalizzazione di vasti e importanti settori dell’economia britannica avesse fallito, vista l’evidente incapacità di portare all’efficienza delle aziende nazionalizzate, né alla pace sociale (giacché, nelle speranze dei fautori socialisteggianti della nazionalizzazione, questa avrebbe posto fine al conflitto tra i lavoratori e i loro padroni capitalisti). Per giunta la nazionalizzazione era vista da più parti come un elemento significativo per spiegare il deludente rendimento economico della Gran Bretagna. Tuttavia l’ovvio rimedio, consistente nel riconoscere lo stato delle cose e avviare una politica di de-nazionalizzazione (ossia di privatizzazione, come venne detta successivamente) veniva ritenuta politicamente impossibile: una rottura con la sistemazione del dopoguerra che la popolazione non desiderava e che i sindacati non avrebbero permesso. Inoltre, com’era evidente, una politica del genere non era mai stata attuata, né nel Regno Unito, né altrove. In effetti, dovemmo inventare lo stesso termine “privatizzazione” (che, tra parentesi, a Margaret non piaceva) per descrivere questa radicale innovazione. Eppure lo facemmo.
Vi era anche un sostanziale accordo sul fatto che le organizzazioni sindacali fossero ormai diventate un soggetto eccessivamente potete, più interessato ad esercitare il potere che a migliorare il livello di vita dei propri membri e che i sindacati avevano reso il paese quasi ingovernabile. Tuttavia, dopo che i precedenti governi, guidati da entrambi i partiti, non erano riusciti a venire alle prese con questo problema, si dava per scontato che ciò fosse politicamente impossibile. Eppure lo facemmo.
E ancora, i cosiddetti “tagli indiscriminati” che attuammo per affrontare il problema di un insostenibile disavanzo di bilancio e di un settore pubblico gigantesco e insostenibile erano ampiamente considerati politicamente impossibile (o, quanto meno, in assenza di un diktat del Fondo Monetario Internazionale). I sindacati, in particolare, le cui roccaforti si trovavano prevalentemente nel settore pubblico, non lo avrebbero tollerato. Eppure lo facemmo. e alla fine le finanze pubbliche registrarono un surplus, a dispetto di tasse più leggere.
Inutile dire che la storia di Margaret Thatcher e del suo governo non è stata una sfilza di genuini successi: questo sarebbe impossibile. Ma i due miti che i suoi nemici continuano a propalare sono del tutto infondati.
Il primo mito sta nell’idea che la signora Thatcher abbia deliberatamente cercato lo scontro con i sindacati dei minatori di carbone al fine di distruggerli. La verità è precisamente il contrario, come dovrei sapere benissimo. Nel 1981, quando mi nominò Ministro dell’energia, le uniche istruzioni che mi dette furono le parole: «Nigel, non dobbiamo avere uno sciopero del carbone!». La signora Thatcher era ancora scossa dalla caduta del precedente governo Conservatore, nel quale aveva servito, avvenuta nel 1974 proprio durante uno sciopero dei minatori. Quello che avvenne nel 1984 fu che il leader del sindacato dei minatori, un marxista egocentrico, cercò di provocare la caduta del governo democraticamente eletto per mezzo di uno sciopero del suo settore. Una cosa inammissibile.
Il secondo mito è che il governo Thatcher abbia distrutto la “base produttiva” del Regno Unito, i dati parlano da soli: durante il ciclo economico del 1973-79 (dominato, in effetti, dai Laburisti) la produzione industriale si era ridotta del 5 per cento. Durante il successivo ciclo “thatcheriano” del 1979-89 la produzione industriale crebbe del 12 per cento.
Nel 1979 Margaret Thatcher entrò a Downing Street decisa a salvare la Gran Bretagna da un enorme declino economico e politico, che oggi è a mala pene ricordato, ma che all’epoca incombeva su tutti noi. La signora Thatcher fece sì che il suo governo riuscisse nell’intento tracciando un cammino radicalmente diverso e, a dispetto i dubbi e il cinismo universalmente diffusi, badando a che i suoi obiettivi venissero raggiunti. Margaret Thatcher passerà alla storia come uno dei più grandi leader che la Gran Bretagna – e, io credo, l’Europa e in verità il mondo intero – abbia conosciuto in epoca moderna.
Infine, spero che mi permettiate di dire due parole in merito all’Italia, al vostro paese. Si tratta di un paese speciale, come testimoniano la vostra ricca cultura e la vostra lunga storia. Aggiungo che il vostro popolo dispone in abbondanza di tutte le qualità necessarie per creare una fiorente economia di mercato. In particolare, intraprendenza e immaginazione sono caratteristici attributi italiani. Ma troppo spesso la vostra intraprendenza e la vostra immaginazione sono soffocate da uno Stato oppressivo e imponente. Inoltre, a un potere statale eccessivo si accompagna inevitabilmente la corruzione: in tutto il mondo, dove si trova l’uno non manca mai l’altra. E la corruzione non è solo moralmente inaccettabile, ma è anche economicamente inefficiente. Auguro all’Istituto Bruno Leoni tutto il successo possibile nella sua missione di liberare il popolo italiano e di salvare il vostro paese, così come Margaret Thatcher ha salvato il mio.
Lord Lawson
Istituto Bruno Leoni – 11 novembre 2013
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