Credo sia inutile soffermarsi sull’assurdità del gesto, del modo e delle idee che hanno portato alla tragedia norvegese ma ciò deve far riflettere perché è un evento che riguarda, tutto sommato, la società.
In realtà, in questo scritto, non vorrei parlare dell’insensatezza della violenza o del razzismo; la storia, che dovrebbe essere nostra maestra, ci insegna che popoli, nazioni e religioni nascono e muoiono senza soluzione di continuità tra le braccia del divenire; questo non vuol dire rinunciare alla propria identità ma semmai aver la forza di accettare che tutto è destinato al cambiamento.
Quello che invece mi fa riflettere in merito a questa tragedia è il desiderio insoddisfatto di assoluto, figlio di una società grassa e insensibile che non è più protesa verso l’alto, verso temi più grandi come Dio o gli ideali, l’arte come espressione di sè o la scienza.
Questa brutta copia di un’atmosfera alla Dan Brown, questa tragica wagneriana “cavalcata delle valchirie”, che senza false ipocrisie ha travolto la società norvegese, ha cercato, lo stesso Brevik lo dice, di scuotere la società, seppur su istanze e modi irricevibili, ma che ci ricorda, nel peggiore dei modi, il crepuscolo dell’animo umano.
Questo anelito di assoluto può portare ad essere Mandela o Hitler; ma l’uomo dei gesti estremi, siano essi ricchi di luce o avvolti nelle tenebre è sempre il frutto di un animo che cerca di guardare verso l’alto, nonostante che oggi sia parecchio “fuori moda”.
E così nella nostra seppur desiderabile democrazia e correttezza di giudizio finiamo la nostra giornata tra una misera corsa all’oggetto, una laida consacrazione della mediocrità dell’uomo medio in TV per concludere in prima serata con l’inutile tirannia dei numeri dell’ultimo bollettino dell’ultima agenzia di rating.
Udm
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