UNA NUOVA GROUND ZERO NEL MARE DELLA LOUISIANA
WASHINGTON – Cominciò come una cartolina dall’abisso, una clip video per telegiornali assetati di notizie. Alle nove e 45 minuti di martedì 20 aprile, ora di New Orleans, una delle 717 piattaforme che succhiano come zanzare mutanti con il loro pungiglioni di mille metri il petrolio dal fondo del Golfo del Messico scomparve in una fiammata rossa e gialla alta 300 metri e larga 200, presto sovrastata da una nube di fumo untuoso e nero. La guerra fra l’acqua e l’olio, fra il nero e il blu era partita.
Le prime sequenze ci mostrarono l’isola galleggiante circondata da rimorchiatori anti-incendo e mezzi di soccorso che lanciavano i loro patetici archi d’acqua e ci dissero che undici, dei centoventisei addetti, erano stati consumati nell’esplosione, morti o dispersi. Un’altra tragedia sul lavoro, fra le tante. Per chi di noi aveva attraversato di persona la immensa muraglia di fuoco e fiamme innalzata da Saddam Hussein incendiando il Kuwait nel 1991, o aveva toccato in Alaska le piume del gabbiani e della folaghe morti soffocati dal greggio nel fiordo del Principe William invaso dal petrolio della “Exxon Valdez”, il disastro del Golfo del Messico poteva ancora sembrare, un piccolo prezzo pagato alla nostra sete inestinguibile di carburanti fossili.
Non c’era ragione di temere altrimenti. A bordo della piattaforma battente bandiera delle Isole Marshall, varata nel 2001 nei cantieri navali della Hyundai coreana e battezzata con il bellissimo nome di “Deepwater Horizon”, l’Orizzonte delle Acque Profonde, c’erano addirittura, al momento dell’esplosione, dirigenti della BP, la British Petroleum, per celebrare il suo perfetto funzionamento. E la BP, la stessa signora del greggio che gestisce l’oleodotto dell’Alaska e ne garantisce la sicurezza, si era affrettata a informare il mondo, insieme con i funzionari della agenzie ambientali della Lousiana, celebre per essere uno degli Stati più corrotti dell’Unione, che “il danno sarebbe stato minimo”. Ma qualcuno, a New Orleans, la grande città più vicina alla piattaforma in fiamme, cento chilometri a nord, al quartiere generale della BP, a Washington, doveva avere avvertito la puzza di bruciato, perché fra il 21 e il 23 aprile, mentre “L’Orizzonte” galleggiante affondava, un’armada aereonavale di mezzi privati e militari aveva cominciato a dirigersi verso la fossa di Macodo, il tratto di mare dove la piattaforma succhiava.
È il venerdì 23 aprile, ora zero più 72 ore, quando l’immensità della catastrofe comincia a sfuggire alle rete di menzogne e di rassicurazioni. Un robot sottomarino che esplora il fondo scopre che una seconda arteria beante di petrolio si è aperta a 1.524 metri di profondità, dove un’altra perforazione era in corso e la quantità di petrolio “dolce leggero”, che leggero e dolce è soltanto nella classificazione tecnica. La fuoriuscita dai due crateri era il doppio dell’annunciato, mille barili al giorno. 160 mila litri. Non molti, rispetto ai 41 milioni di litri vomitati dalla “Exxon Valdez” squarciata in Alaska 21 anni or sono e il Golfo del Messico non è un fiordo stretto come il Prince Williams. Ma, un momento. Già dopo il week end, lunedì 26, Ora Zero più 150 ore, la quantità di greggio fuoriuscito sale a 200 mila litri al giorno, poi a oltre un milione e mezzo di litri dallo scoppio. E la chiazza fetida, spinta dai venti stagionali che soffiano dal sudest verso terra, che all’inizio era stata paragonata al minuscolo stato del Rhode Island, il più piccolo dei 50, risale la classifica, ha già raggiunto le dimensioni della West Virginia, il 41esimo, poi della Virginia, il 37 esimo. E le arterie non cauterizzate continuano a pompare.
Scatta il panico. Si muove la politica che da Obama, colto in contropiede pochi giorni dopo avere ceduto alle pressioni dei petrolieri e avere riautorizzato le ricerca di giacimenti sulle coste, deve sospendere e ritirare l’imprimatur in attesa di studi. Il Parlamento fa quello che fanno tutti i Parlamenti quando non sanno che fare, apre un’inchiesta e trascina i dirigenti della BP, della società Transoceanic che gestiva la piattaforma, delle altre aziende coinvolte, tra le quali la onnipresente piovra Halliburton già carissima al cuore dell’ex suo presidente Dick Cheney, poi vice di Bush, sono fustigati pubblicamente. La BP dovrà pagare tutto e tutti, i danni ai privati, all’ambiente, ai pescatori, agli allevatori, ai sindaci, alle contee litoranee che la “marea nera”, non più nera, lambisce, tocca, sporca, sfiora. Dal Pentagono parte una flotta aerea di C130 Hercules, aerei anti-som con sonar e radar per seguire l’ombra, in tutto 45 velivoli, più dell’intero stormo di bombardieri che la Germania inviò a colpire Rotterdam nel 1940. Ma non esiste flotta aerea o navale che possa bombardare la pellicola di greggio, le molecole di detersivo, la porcheria assortita che si allarga, sempre alimentata dal profondo.
Duecento mila litri di detersivi sono lanciati da imbarcazioni e aerei, mentre il governatore della Lousiana, un repubblicano di origini indiane, Bobby Jindal, che aveva ambizioni altissime e sta sprofondando anche lui nella poltiglia micidiale come i pellicani e le anatre invoca il fuoco per bruciare il petrolio in superficie. Ma 240 ore dopo lo scoppio, siamo arrivati al 30 aprile, la certezza che nessuna misura d’emergenza possa funzionare davvero si fa strada e i titoli della BP crollano. Secondo Merril Lynch, in due settimane le aziende coinvolte nella catastrofe, dalla Bp alla Cameron, fornitrice delle valvole di controllo che non hanno controllato, hanno perduto 31 miliardi di dollari in capitalizzazione e il signor Cameron, personalmente, un miliardo e mezzo. Il 30 aprile, le foto dai satelliti Nasa mostrano che il dito della marea ha raggiunto il Delta del Mississippi, uno degli ecosistemi più fragili del continente. Si mobilitano i pescherecci, i comandanti di quei mietitori di crostacei e molluschi che la grande favole di “Forrest Gump” rese celebri, nel personaggio del soldato nero che sogna i gamberetti rossi. Una solenne cerimonia per consegnare gli Oscar della sicurezza nell’industria petrolifera viene cancellata. La BP era la finalista.
Ormai non si contano più le ore, ma le settimane dell’invasione del mare, dall’Ora Zero. I 200 mila litri al giorno delle prime stime, diventano, il 7 maggio, 500 mila al giorno e la terra continua a vomitare greggio “dolce leggero”. La disperazione produce il cupolone del miracolo, una campana da 130 tonnellate di cemento e acciaio fabbricato in fretta e furia e posizionato dai robot sulla prima ferita. Niente del genere è mai stato tentato e il cupolone miracoloso non è mai stato collaudato, ma qualcosa la BP, che nel frattempo fa arrestare ecologisti e ficcanaso che si aggirano negli acquitrini costieri, deve fare. L’8 maggio il tentativo fallisce. Cristalli di gas metano formati sul fondo dal petrolio in uscita bloccano le tubature che avrebbero dovuto incanalare il fiotto del greggio. L’11 maggio, sempre brancolando nel buio, un secondo “tappo” viene calato, soprannominato il “cappello a cilindro”, Più piccolo, dovrebbe non tamponare, ma risucchiare il petrolio dalle ferita e pomparlo verso un tanker in superficie. Una tecnica già usata, ma mai a quelle profondità e dall’11 non si anno più notizie neppure del “cappello a cilindro”. Pare funzioni meglio. Pare.
La terra sembra dire: non volevate tanto il petrolio? Eccovelo. All’Ora Zero più 30 giorni, quando, secondo l’Università della Florida il totale vomitato dai due fori ha già raggiunto il record della Exxon Valdez, l’ultimo piano disperato parla di fare altre perforazioni nello stesso giacimento di Macondo, per ridurre la pressione con la tecnica medioevale del salasso applicato alla crosta terrestre. La perforazione di “sollievo” costerà almeno 100 milioni e richiederà tre mesi. E intanto il petrolio esce, la perdita continua, galleggia sul pelo della coscienza nazionale, diventa uno spot commerciale. Il 16 maggio, il detersivo “Dawn” scopre che il proprio detersivo è il migliore, il più innocuo, usato dai volontari che stanno pulendo a una a una le creature degli acquitrini della costa dalla patina nera e offre un dollaro di donazione alla pulizia ambientale per ogni flacone venduto.
Il 20 maggio, compimento del primo mese dal “Ground Zero” sottomarino, le autorità tentano una manovra disperata. Si affidano al grande padre, non a quello nei cieli, ma sulla terra al vecchio fiume Mississippi. Spalancano le dighe, le chiuse, abbattono gli argini che da un secolo strizzano il grande fiume e ne costringono il corso, sperando che l’acqua dolce spinga lontana l’acqua di mare portatrice di morte, acqua per spegnare l’acqua, ma anche su funzionasse, sarebbe un palliativo, se l’emorragia di greggio non fosse fermata. Su una cosa soltanto sono tutti d’accordo: questa potrebbe essere, e forse già è, il più grande disastro che si sia abbattuto sugli Stati Uniti, qualcosa i cui effetti sulla biosfera, esseri umani inclusi, nessuno, a 33 giorni dall’Ora Zero, può calcolare. E una marea, uno tsunami di querele e di cause per danni aleggia sopra il Golfo, pronta ad abbattersi come quei cicloni tropicali che ormai la stagione estiva avvicina, tanto per aggiungere tempeste naturali a quelle artificiali. La vendetta della Terra e del petrolio è sempre lunga e terribile. Poco prima dell’esplosione il 20 aprile, gli studiosi dell’agenzia oceanografica nazionale, la NOAA, avevano riesaminato le sabbie e i ciottoli del golfo del principe Williams in Alaska. Il petrolio, 21 anni dopo, c’e ancora. “Se una nazione straniera stesse facendo quello che la perdita di petrolio sta provocando alla nostra frontiera del Sud – dice il disperato governatore Jindal – le avremmo già dichiarato guerra”. La guerra c’è, e la sta vincendo il mare nero.
Vittorio Zucconi
FONTE : http://www.repubblica.it/ambiente/2010/05/24/news/diario_catrastrofe-4288000/
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