Un articolo illuminante sulla VIVISEZIONE per chi vuole davvero sapere, approfondire il tema e diffonderne i contenuti.
Fin dall’approvazione della direttiva europea 63/2010 – che impone alcune esigue limitazioni all’uso degli animali nella ricerca scientifica – le associazioni dei ricercatori favorevoli alla vivisezione hanno iniziato una battaglia divulgativa dai toni allarmistici sul futuro della scienza medica in Italia, della quale il cosiddetto “caso Simonsen” non è che la punta dell’iceberg.
Sono state organizzate numerose manifestazioni, a dire il vero sottotono, delle quali i media hanno parlato solo di sfuggita e quasi unicamente per raccontare le contestazioni di parte animalista, con il drastico cambio di registro tutto giocato sull’emotività: l’aspetto indifeso di Caterina; la gravità delle sue condizioni di salute e, al contempo, la sua determinazione nell’esprimere gratitudine ai ricercatori, hanno portato a un’esplosione prima impensabile di consensi popolari in favore della sperimentazione animale.
Tutto ciò avviene in un momento delicato, e per questo molti hanno ipotizzato che il tempismo di Caterina sia stato tutt’altro che accidentale.
È infatti in discussione proprio in questi giorni, presso le Commissioni Parlamentari, una legge delega che se fosse approvata vanificherebbe buona parte delle timide restrizioni imposte finora, riproponendo mostruosità come l’abolizione degli obblighi di utilizzare farmaci anestetici, l’assenza di un quadro sanzionatorio che funga da deterrente in caso di trasgressione della normativa vigente a danno delle cavie e, soprattutto, stigmatizzando una questione fondamentale: l’incentivazione e la promozione dei metodi alternativi, il cui finanziamento verrebbe ridotto al 16% del totale dei fondi previsti per il settore.
Questa nuova battaglia, che spaventa chi ha a cuore la sorte degli animali, non deve però far dimenticare che la direttiva europea, e non solo il suo attuale recepimento italiano, dovrebbe essere respinta in toto, fin nei suoi principi di base; in particolare per la centralità che continua ad attribuire alla sperimentazione animale quale metodo d’elezione in tutti i campi della ricerca medica, e nel considerare i suoi risultati come paradigma dal quale partire per tarare i metodi alternativi.
Il divieto di allevare primati, gatti e cani per la vivisezione e la moratoria sugli xenotrapianti rappresentano i punti più critici del recepimento italiano, secondo le associazioni dei ricercatori.
Si tratta di novità apparentemente clamorose ma che in realtà non sono che vittorie di Pirro. Primati e gatti non sono mai stati allevati nel nostro Paese; le scimmie perché è molto costoso e difficile farle riprodurre in cattività, i gatti perché praticamente mai utilizzati da parte della ricerca italiana. I cani allevati, invece, come dimostrato dalle campagne di boicottaggio contro Morini e Green Hill, hanno portato alla luce la realtà che si cela dietro questi lager.
Anche sugli xenotrapianti le maggiori limitazioni non sono certo state dettate dal rispetto degli animali.
Questa pratica si è caratterizzata per un susseguirsi di frenate e fallimenti: attualmente c’è da registrare a livello mondiale un forte ripensamento dello xenotrapianto di organi a causa dei retrovirus potenzialmente pericolosi per l’uomo, di cui il suino – la specie più utilizzata – è portatore. La stessa Unione Europea, che fino al 2012 ha sovvenzionato la ricerca in questo settore, ha ora bloccato i finanziamenti.
Gli animali che beneficeranno di queste presunte tutele promosse dalla nuova direttiva sono davvero pochissimi. Inoltre, quelle che appaiono norme restrittive sono in realtà del tutto fuorvianti, soprattutto perché da nessuna parte nel testo del decreto legge, così come nella direttiva, si fa menzione, per esempio, delle specifiche tutele di cui dovrebbero godere gli animali GM (modificati geneticamente), che costituiscono l’assoluta maggioranza degli esemplari da cui attingono a piene mani gli sperimentatori. Senza contare che la direttiva comunque non si applica alle sperimentazioni per farmaci veterinari e per fini legati all’allevamento.
Più volte è stato sollevato anche il problema delle limitazioni sul numero degli esperimenti e la possibilità di renderli più controllabili, ma la faccenda risulta di difficile attuazione.
Innanzi tutto perchè vige un sistema di autocertificazione, per cui sono i ricercatori stessi a determinare il livello di sofferenza che gli esperimenti comportano e la loro intrinseca utilità. Inoltre, i laboratori hanno la facoltà di scegliere autonomamente sia il responsabile del benessere animale che il referente del comitato etico. Come se non bastasse, ancora oggi le tanto decantate richieste di autorizzazione, che dovrebbero aumentare i controlli, vanno inviate in formato cartaceo al Ministero della Salute, aspetto questo che dilata i tempi di esame: se la risposta tarda a giungere, ossia dopo 60 giorni, il laboratorio può iniziare comunque la sperimentazione avvalendosi del silenzio assenso.
In definitiva, le procedure amministrative legate alle autorizzazioni sull’utilizzo di esseri viventi senzienti dotati di valore inerente (così come statuisce il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea) seguono il medesimo destino di una qualsiasi pratica amministrativa che riguarderebbe un bene oggetto di proprietà.
L’impegno preso dai legislatori in sede europea, d’altro lato, è quello di tenere fede al principio delle tre R (Replacement, Refine, Reduction), anche se ci sono alcuni problemi strutturali che rendono una simile prospettiva assolutamente velleitaria.
Per esempio, perché non esistono commissioni di controllo dotate di una qualche autorità ma si richiede che sia lo sperimentatore a valutare in modo “imparziale” l’effettiva necessità del suo esperimento?
C’è poi il grosso problema della mancanza di un database che raccolga tutti i test effettuati sugli animali. Tutto ciò dipende essenzialmente dalla necessità di tutelare il segreto industriale, che garantisce la riservatezza delle ricerche compiute dalle aziende e che spesso sono coperte da brevetto.
Questo banalmente significa che milioni di animali vengono uccisi ogni anno per realizzare esperimenti tutti uguali tra loro. Finché un tale sistema resterà in piedi, sarà impossibile dare seguito ai propositi che Italia e Europa si prefiggono ormai da decenni; tutte le buone intenzioni che sentiamo raccontare non hanno altro contenuto se non quello della propaganda e della demagogia.
Si vorrebbe dare l’impressione che le istituzioni tengano conto del benessere animale andando incontro alle richieste di un’ opinione pubblica sempre più sensibile al tema, ma concretamente non cambia nulla. Teniamo conto inoltre, e questo è un altro punto importante, che le statistiche, non annoverano gli animali-prova, cioè quelli nati morti o malformati e quindi soppressi. In sostanza, il numero esatto di animali che concludono la propria esistenza nei laboratori non è calcolabile.
Dagli anni ’60, ossia da quando la liceità della sperimentazione sugli animali ha cominciato a essere contestata, non è cambiato assolutamente niente. Da 50 anni a questa parte non si fa che chiedere metodi sostitutivi; cosa che a parole condividono quasi tutti ma che poi nei fatti non si traduce mai nella volontà politica di indirizzare seriamente la ricerca in un’altra direzione, nell’unico modo possibile, ossia finanziandola adeguatamente.
In questo senso l’iniziativa StopVivisection ha rappresentato uno strumento perlopiù strategico, perché ha offerto principalmente l’occasione d’informare i cittadini europei sulla realtà che sta alla base della sperimentazione animale e, per obbligo di legge, della totalità dei prodotti industriali, non solo farmaceutici, che acquistiamo.
Molti ancora non sono al corrente di quanto realmente accade.
Solo formalmente, però, Stopvivisection chiede lo stravolgimento dell’attuale direttiva grazie a una mutata sensibilità generale sul tema: anche nella migliore delle ipotesi questa iniziativa non porterà alla fine della vivisezione perché, in quanto istituzione sovranazionale nella quale la gestione degli aspetti economici è predominante, l’Unione Europea deve tutelare in primo luogo gli interessi delle imprese degli Stati che la compongono nei confronti dei concorrenti asiatici e statunitensi.
Un simile impegno non potrà essere rispettato senza sperimentazione animale, almeno finché comprovati metodi sostitutivi non saranno una realtà diffusa e funzionante. Quello su cui si può lavorare, e credo sia un bene che anche l’attivismo di base ne abbia preso coscienza, è un rovesciamento delle priorità metodologiche: si deve chiedere che i test cruelty-free siano la scelta d’elezione, e che solo in mancanza di questi si possa ricorrere all’animale. Oggi, e da 50 anni a questa parte, la filosofia di base della legislazione in materia è esattamente l’opposto.
Credo che sarebbe utile riuscire a fare lobby, come accaduto per l’utilizzo delle cellule staminali embrionali in Italia. Negli Stati Uniti, per un lunghissimo periodo, questo tipo di ricerca non poteva essere svolta presso gli istituti scientifici pubblici, perché erano moltissimi i cittadini che si rifiutavano di pagare questo tipo di attività con le proprie tasse. Si potrebbe provare a fare qualcosa di analogo avviando collaborazioni con gli attivisti americani, in modo da creare una rete di dissenso a livello globale.
Penso inoltre che la richiesta di un’informazione trasparente sia un tema cruciale. La pretesa di avere database pubblici che elenchino gli esperimenti fatti, le finalità, il numero di animali coinvolti, i successi e gli insuccessi di tutte quelle attività finanziate in buona parte da risorse comuni, dovrebbe essere una priorità non solo degli attivisti per i diritti animali ma di tutti i cittadini.
La direttiva contempla questa possibilità. Sta anche a noi chiedere che diventi realtà e non resti un intendimento solo sulla carta per tacitare “gli amici degli animali”.
È una questione che ha a che fare con i diritti costituzionali, il diritto alla salute innanzi tutto. La difesa dei brevetti non può costituire una scusa per tenere nascoste alla società civile informazioni fondamentali. Le case farmaceutiche non possono arrogarsi una tale diritto sul proprio operato reale, come oggi fanno, amplificando la portata dei progressi scientifici e minimizzando i pericoli dei nuovi farmaci attraverso una rete di divulgazione scientifica troppo accondiscendente e non effettivamente libera.
Anche l’Economist di recente ha pubblicato un articolo su questo tema, dal titolo Gli errori della scienza. La cosa rappresenta una novità – non per noi, che quando lo diciamo veniamo accusati di essere nemici del progresso – ma per chi legge questo tipo di riviste, nel senso che non è più un tabù la critica a un metodo oggi in uso e che tuttavia mette a rischio la scientificità delle ricerche.
Dato il contesto specista entro cui ci muoviamo, la migliore strategia penso sia quella di capovolgere i termini in cui la questione è generalmente posta, facendo leva sui nostri diritti per promuovere quelli degli animali.
Gli antispecisti e i vegani costituiscono ormai una minoranza significativa, seppure proporzionalmente bassa, della società: la sperimentazione animale, che riguarda tutti i prodotti commerciali, limita le nostre scelte e, nel caso dei farmaci, nega la tutela del nostro diritto alla salute. Questo fatto non può passare in secondo piano in una società che si definisce libera e democratica e credo che questo andrebbe fatto presente con più forza. Noi antispecisti dobbiamo poter avere accesso a cure e farmaci non sperimentati su animali; diversamente verrebbero lesi, come sta accadendo ora, i nostri diritti costituzionali alla salute e alla libertà di pensiero.
di Paola Sobbrio
Su iniziativa dell’autrice, riadattamento dell’intervista a Paola Sobbrio tratta da Galline in Fabula.
Articolo inviatoci da Antonello Palla di Animal Asia Foundation
http://www.orsidellaluna.org/2014/01/non-siamo-cittadini-di-serie-b/
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